domenica 23 settembre 2012

Myanmar : La madre Teresa di Yangon

http://iosonoqui.vanityfair.it/2012/09/10/la-madre-teresa-di-yangon/

Foto di David Hogsholt

La chiamano la madre Teresa di Yangon. Forse è troppo giovane per esserlo, eppure Ma Phyu Phyu Thin ha 41 anni, lo sguardo tenero, il sorriso pronto e, nel cuore, un amore immenso. Da qualche mese è una delle 30 donne del Parlamento Birmano; è stata eletta nelle liste della Lega Nazionale per la Democrazia di Aung San Suu Kyi. Ma non è per questo che mi ha colpita, anche se questo, forse, meriterebbe un pezzo a parte. Ma Phyu Phyu Thin si occupa, da anni ormai, di malati di Aids, in un paese in cui il virus uccide da 15 a 20.000 persone all’anno per mancanza di medicinali. Ci sono circa 120.000 persone infette che hanno disperato bisogno di farmaci antiretrovirali; soltanto pochi di loro hanno accesso alle terapie salvavita; molti di questi pochi devono la vita a Ma Phyu Phyu Thin.
Ma forse è necessario un passo indietro. Una delle eredità più pesanti della dittatura dei generali, al potere per 48 anni, è l’assenza totale di una sanità che possa dirsi pubblica. Nel mese di marzo trascorsi una settimana nella giungla assieme ai ribelli Kachin e mi colpì molto il fatto che le persone, in assenza di medicine, per curarsi la febbre, si prendessero a pizzichi il collo.
Tornata in Birmania, ho scelto di esplorare questo orizzonte; cosa succede agli esseri umani, nel 2012, quando non ci sono medici, quando non ci sono farmaci. La risposta è facile. Succede, nel 2012, quel che succedeva da noi in epoca preindustriale o, magari senza andare troppo indietro, durante l’epoca di fame tra le due grandi guerre. In Birmania si muore di malattie curabilissime, di malaria, di tubercolosi, di lebbra, di aids e di moltissimi altri morbi.
Tutto questo a Ma Phyu Phuy Thin era molto chiaro, essendo lei cresciuta nel quartiere di Okkalapa, a Nord di Yangon, in una modesta dimora, senza acqua e senza luce e senza strade. I telefoni, a Okkalapa sono arrivati nel 2006; la tv nel 2008 ma solo nelle case dei privilegiati e dei militari. Che vivesse in una dittatura, le fu chiaro nel 1988, l’anno in cui il generale Ne Win decise, dall’oggi al domani, di dichiarare illegali le banconote da 25 e 75 kyats. Fu un colpo immane. La gente nascondeva i risparmi nei materassi, e gran parte di essi erano sotto forma di note da 25 e 75. Milioni di persone furono rovinate. “La gente si suicidava bevendo il veleno”, ricorda Ma Phyu Phyu Thin, “la gente si metteva a letto e per la depressione non si alzava più”.
Fu allora che sentì dentro l’urgenza di dare una mano, di fare qualcosa, di provare, in qualche modo, a riparare quelle ferite. Quel sentimento divenne più forte quando, durante i moti che seguirono, vide diverse teste mozze tenute per i capelli e mostrate come macabri trofei da personaggi strani.
In quella rivoluzione abortita – quella del 1988 – lei fece quel che può fare una ragazza di 17 anni: rimediava cibo e acqua per gli studenti asserragliati nel campus, sempre pronta a servire dietro le quinte, in silenzio, con passo felpato.
Quando arrivarono i soldati e ammazzarono tutti, quando in seguito arrestarono The Lady – come qui chiamano tutti Aung San Suu Kyi – lei decise di iscriversi alla sua Lega per la Libertà. Le sembrava che fosse importante. Passò qualche anno e si rese conto, con raccapriccio, che nel suo Paese i malati di Aids potevano solo fare il test e aspettare la morte, niente altro. Allora decide  di formare, presso la Lega, un Comitato, per occuparsi dei malati. “Agli inizi, nel 95, ’96, potevo solo andare nei villaggi a regalare carezze. La gente parlava e io ascoltavo, ascoltavo, non potevo fare niente altro ma era già qualcosa, e loro morivano sentendosi un pochino meglio”.  Fino al 2004 non c’erano fondi e non c’erano farmaci. Per le strade di Yangon c’erano manifesti giganti del governo che dicevano: “Non abbiamo farmaci per l’Aids”.  Un po’ di medicine sono arrivate nel 2005, l’anno in cui Ma Phyu Phyu ha trasformato una casa di suo papà in un rifugio per sieropositivi. “I fondi? Miei e dei miei amici”. La polizia non gradiva, e faceva irruzione, e chiudeva il centro, sospettandolo di attività sovversive. Nel 2006, le diedero un ultimatum, e lei disse di no, è casa mia, non potete cacciarmi, vi sfido a farlo. Non lo fecero. Da allora, e soprattuto da quando The Lady è venuta in visita, il centro di Ma Phyu Phyu Thin riceve donazioni da abbienti birmani; il giorno della mia visita, pacchi di riso e taniche d’olio e un ricco assegno erano appena stati donati da un’azienda produttrice di tessuti.
Nel 2011 e nei primo otto mesi del 2012 ha trattato – e salvato – 300 persone. In questo momento ce ne sono una trentina, di tutte le età,  stesi su stuoie di bambù, nella sala aperta in cui dormono. Uno, in particolare, mi colpisce: è magrissimo e disperato, e la madre, dolcissima, lo massaggia, e lo carezza, come un neonato.
Ma Phyu Phyu Thin segue il mio sguardo e dice: “Non ti preoccupare. Ce la farà”.
(Mercoledì prossimo in edicola il mio reportage da un lebbrosario birmano)

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