mercoledì 15 dicembre 2010

I messaggi di Padre Piotr Anzulewicz OFMConv (12/12/2010)


L’augurio che la 3a settimana di Avvento

sia occasione per riflettere sulla piccolezza/umiltà

che ci fa davvero grandi.


Gioia umile e umiltà gioiosa



Si fa rosaceo e radioso, ludico e gioioso, come il sorriso di un bambino, il volto della 3a domenica di Avvento. È una piccola sorpresa liturgica che ci prepara al sorprendente annuncio del profeta Isaia: «Si rallegrino il deserto e la terra arida, esulti e fiorisca la steppa» (Is 35,1). Egli si fa voce del sogno del popolo ebreo, esiliato da Nabucodonosor nel 586 a. C., dopo la distruzione di Gerusalemme, e portavoce di quel profondo e insopprimibile anelito di ogni essere umano che il più delle volte viene vanificato dalla cruda realtà della vita. Disinganno, avvilimento e scoramento, insidioso e subdolo o improvviso e violento, come il re caldeo, lo esiliano da quella gioia di amare e di essere amato che è la sua patria vitale. Cancellando i suoi ricordi, intorpidendo i suoi affetti e spegnendo il futuro, gli fanno apparire la vanità di tutto. Come droga si insinua allora la terribile tentazione di porsi fuori del tempo, dichiararsi vinto e rannicchiarsi. La rinuncia all’attività umana e sociale lo fa sentire ancora più solo. La drammaticità della solitudine lo spinge alla convinzione della propria nullità e, di conseguenza, all’«autodistruzione impotente», all’«eterno morire senza tuttavia morire», alla «malattia mortale» (S. Kierkegaard). La soluzione sarebbe il suicidio, ma esso presuppone una decisione che è difficile da prendere. Privo di indicazioni, senza direttrici, traguardi e valori o si smarrisce nel vuoto o scopre la propria finitudine e insufficienza che gli consente di aprirsi alla fede, di percepire la dipendenza dall’Altro e di riconquistare con lui il «filo verde della speranza» che è l’ancora di salvezza, quella il cui «fondamento è l’umiltà e non l’orgoglio, perché l’orgoglio consiste nel non ritrovare la forza in noi stessi» (G. Marcel).

Lasciamoci però illuminare dallo sguardo di grande Isaia. A partire dal mondo naturale e vegetale, egli annuncia una sorta di generazione impossibile: la desolazione arida di partenza sarà trasformata nello splendore dei prati, nella maestosità dei boschi di cedro e nella fecondità delle sorgenti, acque e torrenti. La gioia sarà incontenibile, come davanti al moltiplicarsi dei miracoli di guarigione:

«Si apriranno gli occhi (...) si schiuderanno gli orecchi (...) lo zoppo salterà (…) il muto griderà di gioia (...) scaturiranno acque (…) scorreranno torrenti (...) gioia e felicità li seguiranno e fuggiranno tristezza e pianto» (Is 35,5-10).

È utopia o realtà? Direi che si tratti di realtà, anche se «il deserto resta arido e i ciechi, i sordi, gli zoppi, i muti di Israele non sono fisicamente guariti. Tuttavia il filo verde della speranza trasforma desolazione e sofferenza e fa rinascere la gioia di vivere» (G. Ravasi). Cos’è e dov’è questo «filo verde»? Davvero può rinascere la gioia quando si rimane in un esilio irreversibile? Non è più necessario tornare in patria? La risposta a queste domande la troviamo nel Vangelo di Matteo (11,2-11).

Giovanni il Battista, che aveva riconosciuto ed indicato a tutti l’Agnello di Dio, dall’esilio del carcere fa chiedere: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?» (Mt 11,3). È la sconcertante dimostrazione che dubbio e angoscia possono a tal punto insidiare la memoria e la coscienza da far vacillare anche un profeta di Dio! La risposta di Gesù non sembra, peraltro, soddisfacente: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista...» (Mt 11,4-5). È possibile che l’ascetico Precursore del Signore non sia informato dei suoi miracoli? Probabilmente anche lui si augura un immediato inizio di liberazione sociale, sia pure con le sole armi della parola. Purtroppo l’attesa del regno di Dio patisce continue delusioni, e Giovanni, che ne risente, si fa portavoce dell’atmosfera generale. Gesù però dice: «E beato colui che non trova in me motivo di scandalo!» (Mt 11,6). È una affermazione meravigliosa. Con lui non si cade – nelle situazioni più dolorose – in quello scandalo che, per l’umana fragilità, spinge a soluzioni istintive! Grazie a lui lo Spirito Santo introduce una novità assoluta: «Il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui» (Mt 11,11). Così viene inaugurato un ordine di vita superiore a quello antico: la trasformazione della persona.

«La trasformazione del corpo, cioè dell’essere intero umano – scrive il card. Gianfranco Ravasi, biblista, ebraista ed archeologo –, è posta al centro anche della risposta autobiografica che il Cristo offre ai discepoli del Battista. Col suo ingresso nel mondo certamente molti malati sono stati guariti dai suoi miracoli, ma soprattutto molti ciechi nello spirito, molti storpi nell’inerzia, molti lebbrosi nell’isolamento, molti sordi chiusi in se stessi, molti morti alla speranza sono stati liberati e salvati. Ed è proprio con questo popolo di sofferenti, di poveri e di piccoli che Cristo costituisce la nuova comunità a cui annunzia la buona novella del regno e dell’amore di Dio».

Tale annuncio è in grado di suscitare il «filo verde della speranza» e della gioia.

La gioia autentica non è oblio o distrazione, ma il contrario: è una presa di coscienza in profondità, una relazione, un legame tra l’«io» e il «tu», un dinamismo nell’amore reciproco, un cammino di obbedienza, di sottomissione e di umiltà. E l’umiltà non è disprezzo o svendita di sé, ma il contrario: adesione pacificata al proprio essere, alla propria storia, ai propri limiti e alle proprie ferite. Il cammino dell’umiltà non è nient’altro che un processo di accettazione di se stessi, alla luce dello sguardo che Dio posa su ciascuno di noi.

È la grande fatica del conoscersi, dell’accogliersi e del rappacificarsi. «Sii in pace con te stesso e il cielo e la terra saranno in pace con te» – esorta Isacco di Ninive (sec. VII), vescovo, anacoreta e monaco. Per essere in pace con se stesso occorre innanzitutto disarmare se stesso, deporre le armi interiori e rinunciare a continuare ad affilarle. A questo disarmo si giunge anche attraverso il silenzio e la solitudine.

«La guerra – scrisse il patriarca Athenagoras († 1972) –, la faccio a me stesso, per disarmarmi. Per lottare efficacemente contro la guerra e contro il male, bisogna volgere la guerra all’interno, vincere il male in noi stessi. (...) Bisogna riuscire a disarmarsi! Io questa guerra l’ho fatta, per anni e anni. È stata terribile, ma ora sono disarmato. Non ho più paura di niente, perché “l’amore scaccia la paura”».

Disarmare se stesso non significa svuotarsi e perdere slancio e passione, ideali e prospettive. Disarmarsi è sottomettersi a se stesso e alla propria verità, che è la sottomissione più dura, ma quanto mai necessaria alla gioia vera. «Quando l’umiltà regnerà sui tuoi passi – dice Isacco –, sarai sottomesso a te stesso, e con ciò, tutto [ti] sarà [sottomesso], perché nel tuo cuore nascerà quella pace che viene da Dio. Finché non sarai entrato [in questo luogo], sarai insistentemente perseguitato non solo dalle passioni, ma anche dagli eventi». La gioia nasce dalla pace: «Chi manca di pace, manca anche di gioia» – dice ancora Isacco all’inizio di uno dei suoi discorsi più belli e appassionati. La gioia fiorisce nella pace. Il suo presupposto è l’umiltà, ma è vero anche il contrario: la gioia, quando è vera, umilia ed abbassa, a partire dall’intimo. Essa non è euforia né estasi, ma un moto di effervescenza che attira verso l’intimo e il piccolo, e persino verso l’insignificante, che per l’umile-gioioso acquista un significato inaudito. La gioia è una potenza che umilia e permette di vedere e di apprezzare ciò che è piccolo.

«Quando talora accade – scrive Isacco – che uno sia reso degno di una preghiera ardente, per il moto della grazia, allora nella preghiera lo colgono moti frequenti e innumerevoli, e preghiere veloci e violente, pure e infuocate, come tizzoni di fuoco; e in questi moti c’è un grido potente che sale dal profondo del cuore, unito all’umiltà che viene dalla potenza della gioia. Ma da dove provengono tali realtà? Colui che [ne fa esperienza], in quei momenti, riceve un aiuto nascosto, nei suoi moti, dalla preghiera; e si agita nell’anima il fuoco dell’ardore, dalla cui gioia l’uomo è umiliato nei suoi pensieri fino agli abissi».

Non vi è nessun masochismo. La vera gioia ha a che fare con l’amore. In realtà è l’amore che umilia, nel senso che è un atto di cedimento, di debolezza, di consegna di sé. È qui che fiorisce la gioia che umilia e l’umiltà che fa gioire. Umile è colui che non conta su se stesso, ma sa di essere amato e si lascia amare. è da questa consapevolezza che nasce una gioia non illusoria:

«Se uno fa dipendere la propria gioia da ciò che egli fa, per ciò stesso la sua è una gioia illusoria. Di più: la sua è una gioia misera! E non è solo la sua gioia ad essere misera, ma anche la sua conoscenza. Chi infatti si rallegra, perché ha compreso che Dio è davvero buono, ne è consolato con una consolazione che non passa, e ne gioisce di una gioia vera».

Non mancano esempi di chi continua a gioire, sperare e amare così, anche nella situazione più nera. S. Francesco d’Assisi († 1226) ce ne offre una mirabile testimonianza. Tutta la sua biografia è piena di umiltà gioiosa e di gioia umile, e in questo incontriamo uno dei motivi del suo incredibile fascino. Quando si vede messo alle strette dalla presenza totalizzante di Dio, che lo invita a un nuovo cammino, si sente inondato di gioia e non può «contenere la sua allegria», manifestandola in canti, salti e gesti. Per lui Dio non rappresenta qualcosa di negativo o di temibile, ma l’affermazione vitale, la possibilità umana, la via della realizzazione personale. È festa, gioia, celebrazione. Nei momenti in cui Dio gli si manifesta, sebbene a tentoni, prova una tale gioia che «non sta in sé e, senza volerlo, deve farsi ascoltare da qualcuno». Questa imperiosa necessità di comunicare e di condividere la sua incontenibile gioia spiega perché – da Cristo danzante o da «araldo del gran re» – andasse per i campi, i boschi e i monti cantando le lodi al Dio della gioia, Creatore di tutte le cose e Padre di tutti gli esseri. La natura è un «bellissimo poema», un «libro aperto» (s. Bonaventura), una «biblioteca della divinità», una manifestazione originale e inedita della bontà divina, ‘tempio’ di Dio e dimora dell’uomo, il quale è chiamato ad amare e morire mostrandosi «lieto, giocondo e garbatamente amabile» (Regola non bollata, VII 16), e chinandosi, come il Cristo, sui volti oppressi e spezzati.

Piotr Anzulewicz OFMConv

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