martedì 29 marzo 2011

CAMBOGIA : Khmer rossi, la giustizia è un miraggio


Inizia il processo di appello al "compagno Duch", l'aguzzino del carcere di Tuol Sleng, che un giorno potrebbe tornare in libertà. Mentre altri ex esponenti del regime, ormai anziani, probabilmente non arriveranno mai a una condanna
Fare giustizia, nel caso di un aguzzino che ha torturato e ucciso 15 mila persone, è un'idea che comunque non cancellerebbe quegli orrori. Ma il processo contro il “compagno Duch” - il primo contro un ex membro del fanatico regime dei Khmer rossi cambogiani tra il 1975 e il 1979 – si sta trascinando da così tanto, e potrebbe finire con un verdetto talmente mite, da quasi riaprire le cicatrici storiche di una Cambogia che in quegli anni perse 1,7 milioni di persone, un quarto della sua popolazione.

Responsabile del carcere-centro di tortura di Tuol Sleng a Phnom Penh, ora un museo-simbolo del genocidio cambogiano, Duch (vero nome Kaing Guek Eav) è tornato ieri davanti ai giudici del Tribunale misto istituito dall'Onu in Cambogia, nella prima udienza dell'appello dopo una condanna in primo grado a 35 anni di reclusione. Per i suoi avvocati, Duch (68 anni) deve essere assolto perché era un semplice segretario del regime e non aveva altra scelta che di eseguire gli ordini.

Catturato nel 1999 dopo una latitanza di vent'anni, e nel frattempo diventato cristiano evangelico, Duch è più volte apparso sinceramente pentito, ammettendo la sua colpa e chiedendo scusa ai familiari delle vittime. Ma spiazzò tutti nelle sue parole finali prima del verdetto, nel novembre 2009, chiedendo l'assoluzione appunto per l'impossibilità di non eseguire gli ordini di Pol Pot. La condanna dell'anno scorso non accontentò né l'accusa, che chiedeva l'ergastolo, né la difesa e né i familiari delle vittime: calcolando i cinque anni di “detenzione illegale” nella giungla e poi gli 11 già scontati dalla cattura, Duch potrebbe tornare in libertà nel 2030.

Ero in aula a Phnom Penh nel marzo 2009, quando il processo a Duch – dopo anni di ritardo causati da cavilli legali e interminabili negoziati sulla composizione di un tribunale sempre a corto di fondi – finalmente iniziò. Ricordo gli occhi glaciali, quasi vitrei, di quest'ometto smunto, sempre attento nel seguire i lavori in aula, con la stessa meticolosità con cui gestiva i registri di Tuol Sleng, da dove solo una decina di persone uscirono vive. Quando visitai il carcere-museo con una delle superstiti, che mi indicò la sua foto in bianco e nero sulla parete dove sono esposti i ritratti di tutti i detenuti uccisi, una visitatrice straniera quasi cadde dall'emozione nell'apprendere che qualcuno era ancora vivo.

Due anni dopo, non è ancora finita. Dopo questi giorni di udienze, si fermerà di nuovo tutto fino a giugno. E qualsiasi sarà la sentenza, state ben certi che il governo del primo ministro Hun Sen – che ha in pugno il Paese dagli anni Ottanta – tratterà la cosa con l'atteggiamento già dimostrato finora: con un malcelato fastidio per la rivisitazione della pagina più nera della storia cambogiana. Anni fa, Hun Sen disse esplicitamente che il suo governo non appoggiava un allargamento del processo ad altri ex esponenti del regime. Il fatto che diversi membri del governo – tra cui lo stesso Hun Sen, che comunque non è mai stato accusato di crimini – abbiano un passato tra i Khmer rossi di certo non aiuta.

Nonostante in carcere ci siano quattro ex leader dei Khmer rossi – l'ideologo e ''fratello numero due'' Nuon Chea, il capo di Stato Khieu Samphan, il ministro degli esteri Ieng Sary e la moglie Ieng Thirith - c'è il serio rischio che quello di Duch sia l'unico procedimento portato alla conclusione. Il processo agli altri quattro dovrebbe – a meno di altri rinvii – iniziare entro la fine di quest'anno. Ma gli imputati sono quasi tutti ultraottantenni e con problemi di salute. E finora, al contrario di quanto ha fatto Duch prima di dichiararsi innocente, non hanno neanche dimostrato nessuna disponibilità a collaborare.

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