venerdì 24 dicembre 2010

I messaggi di Padre Piotr Anzulewicz OFMConv (19/12/2010)


Ante portas est dies natalis.

Il Signore ci aspetta, oggi e ancora, in tutta la nostra disarmante autenticità:

egli ha bisogno di figli, non di giusti.

Che ci scampi dall'abitudine e dai buoni sentimenti che non convertono il cuore, ma che lo ottundono.

Che la ribellione e la rabbia verso il mondo e verso la vita che alle volte abita il nostro cuore

non diventi mai ostinato rifiuto dell’Amore incarnato di Dio!



4a domenica di Avvento (A)

Is 7,10-14; Sal 23; Rm 1,1-7; Mt 1,18-24

19 dicembre 2010



Accoglierlo nel cuore,

con fede e amore



Ormai il Natale è alle porte. Lo percepiamo già nell’aria e la liturgia - con la quarta domenica e quarta candela di Avvento, quella della fiducia nel Signore, e il quarto giorno della novena - in modo accorato cerca di convincerci che il Cristo viene, come ospite velato, anche in quest’ora della storia, sebbene egli sia già venuto duemila anni fa: penetrando gli strati dell’universo è arrivato nel cuore della terra ed è diventato nostro compagno di lavoro e di tavola, commilitone di tenda, camerata, amico (contubernalis, commilitio, commanipularis, amicus).

Questa è una notizia che ci conforta l’anima e ci riempie il cuore di felicità, perché tutti sperimentiamo la solitudine e l’abbandono, l’avvilimento e la sofferenza… La venuta del Cristo dà splendore e bellezza alla nostra esistenza, immette frammenti di sole dentro le vene oscure della nostra vita e ci fa diventare testimoni della luce e non della notte, annunciatori del bene e non dello sfascio o del degrado del mondo, sentinelle del positivo e non dei difetti o dei peccati che assediano ogni vita, testimoni che ogni Adamo conserva in sé, sotto la tunica di pelle, una tunica di bellezza che il Cristo, nei giorni più veri, riporterà alla vista e alla gioia di tutti.

Nel mistero del Natale, semplice e sublime insieme, Dio altissimo ha modificato qualitativamente la sua presenza nel mondo: il dialogo diretto con l'uomo, interrotto a causa del peccato, per secoli si era limitato a una alleanza difficile e precaria, a distanza, per l'intermediazione dei profeti. Isaia, nato intorno al 765 avanti Cristo, uno dei profeti più importanti di tutta la Bibbia, ce lo conferma con un episodio in cui fu coinvolto personalmente. E alla fine preannuncia il progetto di Dio che di gran lunga trascende le attese umane: «Il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la vergine concepirà e darà alla luce un figlio che si chiamerà Emmanuele» (Is 7,14). Il Dio, preannunciato dal Profeta e annunciato da Matteo, è ormai il «Dio con noi» (Mt 1,23), presente di persona nell'umanità, nel «segno» di una nascita, nell'evento dell'incarnazione del Figlio di Dio. Così il «Signore della maestà» stringe con l’uomo un’alleanza eterna: in Gesù di Nazareth si rivela a noi come Umiltà, Sublimità, Amore umile.

Per questo s. Francesco d’Assisi, innamorato della persona di Gesù, fatta di Dio e di uomo, esclama: «O umiltà sublime! O sublimità umile, che il Signore dell’universo, Dio e Figlio di Dio, così si umili (…). Guardate, frati, l'umiltà di Dio (...). Nulla, dunque, di voi trattenete per voi, affinché totalmente vi accolga colui che totalmente a voi si dona» (Lettera a tutto l’Ordine, 27: FF 221). L’Eucaristia, che è il prolungamento dell’incarnazione, gli rivela l’abbassamento quotidiano di amore dell’Altissimo, della Maestà ineffabile, del Creatore onnipotente e insondabile, e lo invita ad una risposta di amore/dono totale, anch’essa nella forma dello spogliamento e della rinuncia radicale.

Dio, facendosi presente nel seno di una madre, ossia nel cuore della materia (la parola «madre» – mater – deriva da materia, nel senso più nobile del termine, che indica concretezza e realtà), proclama la bellezza di tutte le cose. L’universo, creato da lui, è «cosmo», cioè bellezza. Nello stesso tempo egli ci rivela la dignità della donna: «…Dio mandò suo Figlio nato da donna» (Gal 4,4). Ogni donna viene elevata, in Maria, alla dignità altissima. Lo conferma Gesù stesso dalla croce: «Donna, ecco tuo figlio (Gv 19,26)».

Oggi si parla tanto – e giustamente – della promozione della donna. Rispetto a Dio siamo però molto in ritardo. Egli, come sempre, ci batte sul tempo, perché mette talmente al centro la donna da farci ammutolire e spronarci a riflettere sui nostri ritardi nel capire le sue delicatezze. Se per umanizzare la terra, Dio si serve dell'uomo, per umanizzare l'uomo si serve della donna, sublimata nella Madre di Gesù. Forse per questo il Vangelo è pieno di creature femminili, il cui affetto prende spesso una soave tinta materna.

Le letture bibliche dell’ultima domenica di Avvento ci invitano a riflettere su Maria. Ella, prima di accogliere nel suo corpo il Figlio di Dio, lo ‘accoglie’ nel suo cuore. Anche per noi deve avvenire un concepimento. Gesù adombra questa realtà quando dice: «Mia madre e i miei fratelli sono quelli che odono la parola di Dio e la mettono in pratica» (Lc 8,21). Le sue parole vogliono dirci: la consanguineità non è sufficiente per ritenersi fratelli o figli. Solo nel cuore, la cui funzionalità si chiama amore, possiamo essere ‘parenti’ di Gesù. «E’ dal cuore che parte l’amore radicale e totale» (S. Palumbieri).

Oggi, grazie all’ingegneria genetica, che pretende di avere il monopolio della vita, è possibile concepire non con «cuore di carne», ma con «cuore di pietra» (Ez 36,26), non con un gesto di amore, ma con un gesto di egoismo, senza la necessità dell’alleanza maschio – femmina. Potremmo chiederci se ci sarebbe piaciuto essere stati progettati senza la presenza concreta di un padre, sostituito da una provetta. È giusto utilizzare il seme maschile come una merce qualsiasi? Quale sarà la salute fisica del bambino nato in un corpo non più naturalmente adatto a condurre una gravidanza? Ancora: quale sarà la condizione psicologica di un figlio che all’età di soli sedici anni si troverà, oltre che senza un padre, con una mamma-nonna di settant’anni, incapace di comprenderlo al meglio, e di seguirlo nella sua crescita? E come si sentirà, la mamma, quando il figlio, probabilmente, si vergognerà di lei di fronte agli amici? Quando le chiederà conto dell’assenza del padre?

C’è tutta una cultura che ritiene che il padre importi poco. Ce n’è anche un’altra, quella che sponsorizza i matrimoni «gay», che ritiene che né padre né madre servano più a nulla. Per questa cultura il diritto è solo quello dell’adulto, del più forte, di chi può decidere: il bambino chiamato all’esistenza non viene neppure contemplato e i suoi diritti non esistono affatto. È così che si continua a scivolare dalle parti della «non» famiglia. Non si fa famiglia e non si creano famiglie, istituzionali o non. Occorre allora mettere nel conto una battaglia culturale di lunga lena che passa attraverso le scuole, le parrocchie, la politica, il tessuto delle associazioni culturali e solidaristiche, per tornare a crescere giovani svegli che non abbiano paura di affrontare la vita che rivaluti la valenza comunitaria di una famiglia ricordata oggi solo nel male, bistrattata da stampa e intellettualità, raccontata come fuori moda e anacronistica, cellula dell’egoismo invece che dell’apertura al mondo. E occorre anche abbassare i livelli di difficoltà che si incontrano per mettersi in coppia, fare famiglia quando si è ancora giovani, rivalutare il senso della fattiva ed operosa ricerca del lavoro già dalla scuola e segnatamente dall’università. È grottesco che nel mondo di oggi i nostri studenti universitari comincino a guardarsi attorno per vedere quel che possono fare, e come e dove, dopo aver acquisito la laurea a 26-27 anni. L’università si è venuta trasformando nella più formidabile fabbrica di disoccupati, sottoccupati, mal occupati e mai occupati a memoria d’uomo. Occorre allora creare una reale continuità tra i due mondi, facendo sì che l’uno, quello degli studi, sfoci nell’altro, quello del lavoro. Insomma, occorre «scollare» i giovani tanto dai divani di casa, come dai palasport che ospitano le migliaia di partecipanti ai concorsi per un qualsivoglia posto pubblico. Insomma, occorre volgere l’attenzione alla famiglia che non c’è o non vede la luce (cfr. R. Volpi, Sconsagrada Familia, «Il Foglio», 28 ottobre 2010, p. III).

Dio cerca il «sì» della donna e dell'uomo. L'esempio estremo di questo suo desiderio è che il Figlio divino non avrebbe potuto incarnarsi senza il «sì» di Maria e quello di Giuseppe. «Uomo giusto», silenzioso e stupendo, aveva il coraggio di scommettere tutto sulla fragile parola di una donna. Secondo i legittimi sogni dei giovani, nutriva la prospettiva di una vita accanto a Maria, ma, ad un certo punto, i suoi piccoli sogni sono stati attraversati dal meraviglioso Sogno che lancerà tutti noi, come figli, nel cuore di Dio. è il sogno del «mistero nascosto da secoli» (Ef 3,9). E così Giuseppe «prese con sé la sua sposa» (v. 24). Nel cuore scoprì di avere quella donna e di amarla anche senza volerla possedere, radice segreta della verginità della coppia di Nazareth. E Dio completò l'opera, unendoli con un amore – l’Amore incarnato di Dio, Gesù Cristo.

La coppia di Nazareth era povera di tutto, ma non povera di amore, perché se c'è qualcosa sulla terra che apre la via alla pienezza di vita, questa cosa è l’amore. E ogni amore vero deve varcare la stessa soglia: dal possedere al proteggere, cioè amare, voce del verbo morire, voce del verbo vivere; che significa dare e mai prendere, amare per primo, in perdita, senza far conti.

Aiutaci, Signore, a non recitare nessuna parte davanti a te, ma dire dei «sì» motivati e convinti, ed essere sempre veri nelle nostre scelte e decisioni. «Maranathà» – Vieni Signore Gesù!



Piotr Anzulewicz OFMConv

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