di GERARDO MORINA
«C'è un tempo per il silenzio e un tempo per parlare»: così Aung San Suu Kyi, la leader democratica tornata sabato in libertà, si è rivolta alla folla festante che l'aspettava davanti a casa. Aung San Suu Kyi ha parlato al suo popolo in lingua birmana e alla stampa internazionale in quell'inglese oxoniano che le viene dai suoi studi a Oxford e dal fatto di essere vedova dell'accademico britannico Michael Aris.
Figlia del generale Aung San (l'eroe nazionale - assassinato nel 1947 - che avviò la Birmania verso l'indipendenza dal Regno Unito), premio Nobel 1991 per la pace, la sessantacinquenne leader storica dell'opposizione birmana ha passato 15 degli ultimi 20 anni agli arresti domiciliari, cui l'ha costretta la giunta militare che dal 1962 tiene in pugno il Paese. Il mondo ne ha fatto un un simbolo e un mito, quasi come Gandhi, Mandela e Benazir Bhutto. Ma per Gandhi giocarono molto la fine della colonizzazione britannica e la divisione tra indù e musulmani. In quanto a Mandela gli fu determinante l'appoggio di De Klerk nel governo bianco sudafricano del tempo. E in Pakistan Benazir Bhutto cadde assassinata.
Aung San Suu Kyi ha dalla sua il fascino elegante della figura e il carisma della non violenza, ma potrebbe ritrovarsi quasi sola ed impotente con l'esile forza di un usignolo: un bel canto, ma con la debolezza di uno scricciolo. In più, con la prospettiva tutt'altro che remota di essere fatta fisicamente fuori dallo stesso regime che nel 2003 pare fu dietro l'attentato dal quale Aung San si salvò, ma che costò la vita a un centinaio di suoi sostenitori.
Perché anche dopo la sua liberazione la giunta militare le rimane quanto mai ostile e, se l'ha sottratta agli arresti domiciliari, non è stato certo per un atto di pura magnanimità, ma per un rischio del tutto calcolato. Le recenti elezioni (definite «una farsa» dalla comunità internazionale pervia dei diffusi brogli) hanno conferito una vittoria pilotata allo Union Solidarity and Development Party (USDP), il principale partito delle forze armate che governano il Paese.
Mentre il partito dei generali avrà il controllo del Parlamento e del Governo, Aung San Suu Kyi è stata politicamente indebolita dalla scelta di boicottare le elezioni e la sua decisione ha offerto alla giunta un appiglio per sciogliere il suo partito (la National League for Democracy, NLD) e privarla così di una posizione istituzionale.
Inoltre la decisione della «Lady» birmana non è stata condivisa da tutto il fronte di opposizione democratica, parte della quale ha deciso di partecipare alle elezioni vincendo un certo numero di seggi.
In questo modo il regime è stato in grado di dividere l'opposizione e di giocare a ragion veduta la carta del rilascio di Aung San Suu Kyi considerando l'atto simbolico della liberazione superiore alle sue effettive conseguenze politiche.
Il rischio è così che Aung San Suu Kyi diventi a lungo andare ininfluente, o comunque meno decisiva di fronte all'opinione pubblica, contribuendo ad un suo graduale isolamento.
Mentre rimane improbabile che il regime si evolva in senso democratico, il mensile degli esuli birmani «The Irrawaddy» stampato in Thailandia scrive che la Signora è stata liberata dagli arresti domiciliari solo per essere collocata in una prigione più grande, come «vino vecchio messo a decantare in bottiglie nuove».
Certo, la tenace Aung San Suu Kyi non si lascerà frenare dalle numerose sfide che l'attendono: la ricerca di un nuovo dialogo con i militari, la lotta per il rilascio di tutti i detenuti politici, la soluzione dei conflitti armati di natura etnica, il superamento delle divisioni politiche, il ripristino del rispetto della Costituzione e le pressioni per un ammorbidimento delle sanzioni economiche decretate contro il Myanmar dalla comunità internazionale.
Occorreranno tempo, coraggio e costanza. Ma il principale problema è che nulla cambierà finché la giunta militare godrà del sostegno anche finanziario della Cina, esplicita nel definire le recenti elezioni birmane «il passaggio liscio del Paese a un potere eletto».
Se per la Cina la liberazione di Aung San Suu Kyi suona decisamente scomoda perché interviene a ricordarle la detenzione del proprio Nobel per la pace, il dissidente Liu Xiaobo, Pechino continua a considerare la giunta come un fattore di sicurezza, non cessando di mantenere a galla il Myanmar attraverso legami commerciali, investimenti nelle sue grandi risorse naturali, la vendita di armi e la protezione dalle sanzioni dell'ONU. Con un accanimento che deriva da un'importante regione strategica: dopo il graduale passaggio del Vietnam nell'area di influenza statunitense, Pechino non vuole infatti che un altro Paese del Sudest asiatico esca dalla sua orbita.
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