giovedì 10 febbraio 2011

Myanmar : La nuova "normalità" birmana ( di Alessandro Ursic )

La nuova "normalità" birmana
di Alessandro Ursic
Dopo le elezioni e la liberazione di Aung San Suu Kyi, si sta creando un consenso per la rimozione delle sanzioni occidentali
Se pensate che dopo le elezioni e il rilascio di Aung San Suu Kyi la Birmania sia diventata improvvisamente una democrazia, peccate di ingenuità. Ma in attesa che si riunisca il nuovo Parlamento e che si chiarisca il ruolo politico del premio Nobel per la Pace da donna libera, si sta creando attorno al Paese un'aria da “primo passo da incoraggiare”. Tanto che si moltiplicano le voci di chi chiede la rimozione delle sanzioni economiche applicate da Stati Uniti e Unione Europea fin dagli anni Novanta.

L'amministrazione Obama fece capire da subito che le sanzioni erano considerate inefficaci: ne scaturì un approccio pragmatico ai generali birmani, che però portò a poco. Ma con il primo voto dal 1990 e Suu Kyi finalmente libera, il dibattito sulle sanzioni ha ripreso quota. Un editorialista del New York Times ha argomentato le ragioni per toglierle. Nei giorni scorsi, i Paesi del sud-est asiatico (Asean) – che pure continuano a fare allegramente affari con la Birmania – hanno chiesto lo stesso. Ieri lo ha fatto persino il leader della “Forza democratica nazionale” - formata dalla costola del partito di Suu Kyi contraria al boicottaggio delle elezioni, e che ora rappresenterà il principale partito di opposizione in Parlamento.

La stessa Suu Kyi, il giorno dopo il rilascio, si era mostrata possibilista, spiegando che “Se il popolo desidera che le sanzioni vengano rimosse, ne terrò conto”. Detto da una donna in passato considerata granitica nella sua opposizione al regime, è già abbastanza per far capire che un ripensamento è in atto. La giunta militare guidata dall'impenetrabile Than Shwe, a cui le sanzioni non hanno impedito di arricchirsi con gli investimenti cinesi e di altri Paesi asiatici, non ha mai risposto pubblicamenti agli inviti di Suu Kyi alla collaborazione. Ma è facile pensare che i militari non abbiano niente in contrario ad aprire il Paese alla competizione di investitori da tutto il mondo.

Alla fine il dibattito si riduce a una lotta tra denaro ed etica. Per gli attivisti della diaspora democratica, gli ex prigionieri politici, togliere le punizioni alla giunta e vederla quindi riconosciuta come interlocutore a livello internazionale rimane un tabù: va contro a tutto quello per cui hanno lottato e sofferto. Sebbene chi vive o viaggia spesso in Birmania non possa fare a meno di notare come le sanzioni servano a poco e l'isolamento del Paese danneggi la popolazione, è chiaro però che gli interessi economici e geopolitici hanno un peso enorme: l'Occidente ha in pratica consegnato alla Cina un Paese di 50 milioni di abitanti, in un'area sempre più strategica, e ora scalpita per far parte del gioco.

Washington e Bruxelles, per arrivare davvero alla decisione politica di rimuovere le sanzioni, aspetteranno probabilmente progressi ben più evidenti di quelli visti finora. Il clima che si è creato comporta però già da ora due problemi. Il primo è che nel Paese, nonostante gli ultimi sviluppi, è praticamente tutto come prima: il nuovo Parlamento - che si riunirà il 31 gennaio, e probabilmente con poteri da passacarte - è dominato per oltre quattro quinti dai militari e dal partito espressione del regime, la “Lega nazionale per la democrazia” di Suu Kyi è stata sciolta forzatamente per aver boicottato un voto rivelatosi una farsa, nelle carceri rimangono 2.100 prigionieri politici.

L'altro problema è che la causa democratica, dato il riconoscimento di questi “progressi”, sta perdendo inerzia. Diverse Ong già denunciano un calo dei finanziamenti e dell'attenzione da parte dell'Occidente; Irrawaddy, l'eccellente organo di informazione della diaspora, ha appena sospeso la pubblicazione della sua rivista mensile per mancanza di fondi, anche se intende continuare a portare avanti il sito. Suu Kyi ha ormai 65 anni e non ha una salute di ferro: quando lei non ci sarà più, la Birmania perderà anche l'unica icona capace di calamitare l'indignazione del mondo. Il paradosso è che già ora, con “la Signora” tornata in libertà, i militari stiano ottenendo lo stesso effetto.

Nessun commento: