mercoledì 9 febbraio 2011

Il Myanmar, la Birmania, terra di spiriti e di dèi. ( di Selene M. Calloni Williams 9

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Il Myanmar, la Birmania, terra di spiriti e di dèi

Reportage di un Viaggio in Birmania di Selene M. Calloni Williams

Bagan, dove apprendere l’equilibrio fra gli opposti, e i sobborghi di Yangon, dove aspiranti costruttori commissionano un rito magico ed eremiti tantrici fissano il sole a occhio nudo.

Chiamato “Pagan”, “il luogo dei Pagani”, dagli inglesi, durante l’epoca della colonizzazione, Bagan è la città antica più affascinante della Birmania.
A Bagan pare scoperta, o mai perduta, l’arte di non subire l’andamento polare della vita, il moto del pendolo, che incessantemente oscilla tra luce e ombra, tra mente razionale e mente mistica, tra, eccitazione e depressione, tra il calcolo logico del vantaggio/svantaggio e l’urgenza incosciente del sacro, del “sacrificio”, del bisogno di darsi.
A Bagan sembra così semplice l’arte di cavalcare il pendolo, anziché venirne trascinati, così naturale la capacità di essere al centro tra i concetti e gli spiriti, tra la logica e l’irrazionale, tra i valori della società civile e le irrazionali potenze della natura, tra i significati creati dalle culture e dalle religioni sociali e quelli dati dall’istintivo sapere della spiritualità naturale.


A Bagan, a nulla sono valsi, nei secoli, gli sforzi di re, imperatori, monaci e filosofi per sradicare le rappresentazioni, le possessioni , il canto e la voce degli dèi e dei dèmoni. Quella terra pare essere stata eletta dagli spiriti quale loro secolare dimora.
Chi giunga a Bagan ha innanzitutto la sensazione di trovarsi su di un altro pianeta, tanto ciò che vede intorno a sé non è proprio di nessun altro paesaggio umano. Le rovine di migliaia di stupa si estendono tra una vegetazione incolta nella quale è impossibile addentrarsi a causa della presenza delle vipere. Spirito tutelare, la vipera conserva l’inacessibilità della dimora degli spiriti per tutte le creature mortali. Birmani e turisti, archeologi e operai, militari e monaci, nessuno fa un passo al di fuori dei sentieri tracciati e di uccidere le vipere neppure se ne potrebbe parlare. La vipera e i serpenti sono sacri nella credenza di pressoché tutte le etnie della Birmania. Se un serpente entra nella casa di un birmano non viene ucciso, ma solo scacciato, chi uccida un serpente verrebbe colto da un’infinità di disgrazie, mentre essere visitati nella propria casa da una vipera o da un serpente è segno di gran buona fortuna. Se, per caso, ci si trovasse costretti a uccidere un serpente, bisognerebbe seppellirne il corpo con il massimo rispetto, affinché lo spirito che lo abita non abbia a rivalersi.
Bagan è l’ultima meta del nostro viaggio in Birmania e vi arriviamo assolutamente preparati e pienamente desiderosi di incontrare gli spiriti.
I nat, ovvero gli spiriti nel linguaggio dei birmani, sono stati, infatti, già cercati e trovati da noi giorni prima nei sobborghi di Yangon, l’attuale capitale della Birmania. La nostra guida, Martin, si è informato per ogni dove e, alla fine, è riuscito a portarci proprio nel vivo di un rito sciamanico di esorcismo alla periferia della capitale.

Martin non è birmano, ovvero non fa parte dell’etnia bamar, che è la più numerosa in birmania, appartiene alla popolazione Padaung che è parte dell’etnia Kayin, una minoranza che ancora oggi non ha ceduto le armi contro il regime militare di Yangon. Gli uomini Kayin erano, fino a un passato impressionantemente recente, e ancora oggi, qualcuno sostiene, tagliatori di teste di animali e di uomini. Cacciatori, essi uccidono gli animali catturati a poco a poco, prima rompendogli i piedi, poi le gambe, poi la coda, perché “così piace al loro spirito”, ci dice Martin.
Le donne Kayin sono soprannominate donne dal collo lungo. Fin dalla più tenera età vengono loro applicati anelli d’oro intorno al collo, alle caviglie e ai polsi. Gli anelli fanno sì che i loro colli si sviluppino in una lunghezza abnorme, ciò ricorda loro di essere discendenti dei naga, dragoni mitologici. L’usanza di portare anelli viene anche attribuita a un gesto di generosità dei parenti, i quali regalano alle loro figlie femmine la loro ricchezza. Il peso degli anelli d’oro che le donne Padaung portano al collo raggiunge gli otto chili in età adulta e ognuna di loro porta il proprio oro con sé nella tomba. Gli anelli vengono anche considerati una difesa contro l’assalto delle tigri e di altri animali feroci. L’impoverimento dei Padaung, a causa principalmente della guerra, impedisce loro di proseguire la tradizione degli anelli d’oro, che non sono mai stati sostituiti con un altro metallo meno prezioso.

Enormemente utile all’equilibrio psicofisico, il pellegrinaggio a Bagan è da consigliarsi a chiunque abbia fatto proprio il bisogno più radicato nell’uomo, quello di conoscersi. A Bagan è possibile vedersi fin nelle viscere, poiché i nat, gli spiriti, appaiono come l’altra faccia degli organi corporei e degli elementi naturali.
A Bagan il corpo si rivela anima, nella pluralità delle espressioni naturali, e la materia si mostra spirito, nella infinita molteplicità cosmica.
Gli sciamani padaung e bamar seminano, ancora oggi, timori e superstizioni tra la gente.
Intimorito dalle proprie superstizioni, Martin, trova il luogo nei sobborghi di Yangon, dove si celebra il rito sciamanico. L’ha scoperto unicamente perché spinto dalle nostre insistenze, ma non vuole partecipare al rito, anzi vorrebbe starsene lontano. Alla fine, condizionato pure dal senso della responsabilità che nutre verso di noi, suoi folli clienti, cede, e decide di accompagnarci nel cerchio del rito magico.
A testimonianza del fatto che i nat impersonano le forze oscure della psiche umana, essi amano l’alcol, la musica chiassosa, il tabacco, le urla, i travestimenti, le scurrilità, adorano divorare carne e giocare con il fuoco.
Lo sciamano che presiede il rito è travestito da donna, perché deve essere posseduto dal proprio spirito, con il quale ha un rapporto erotico nottetempo.
Lo sciamano è chiamato nat –gadaw, letteralmente moglie del nat.
L’eros è conoscenza per gli sciamani, i quali trasmettono la saggezza istintiva dei popoli.
Dopo il rito, lo sciamano dai noi intervistato, spiega che a quattordici anni è stato posseduto per la prima volta dal suo spirito, il quale l’ha rapito in sogno e gli ha mostrato tutti i segreti dell’arte amatoria, dell’arte dell’esorcismo, della guarigione e della divinazione sciamanica. Da allora egli si traveste da donna ogni volta che dà vita a un rito, per meglio evocare il proprio sposo “celeste”.
Lo sciamano beve rum e danza al suono dei tamburi, fuma due sigarette alla volta, altri personaggi travestiti danzano con lui: uno, anch’esso posseduto da uno spirito maschile, è gay anche nella vita quotidiana, lo sciamano ci spiegherà che in un gruppo di medium esperti c’è sempre la presenza di un gay.
C’è poi un uomo che, posseduto dallo spirito di un demone maschile a cui piacciano le donne, danza bevendo rum, mettendo in mostra muscoli. Costui, ad un tratto, si china su di una ragazza seduta nel cerchio, poco distante da noi. La ragazza cambia immediatamente espressione e inizia a danzare a sua volta, rotolandosi ripetutamente a terra, posseduta, nella trance, afferra un uomo e avanza al suo riguardo proposte sessuali con gesti inequivocabili. Nel mentre, un’altra donna del pubblico viene posseduta dallo spirito, il suo corpo si fa immediatamente rigido, come un tronco, e inizia, lei pure, a rotolarsi per terra. Il ritmo dei tamburi incalza.

Martin non ce la fa più, vuole andarsene. Forte di un appuntamento, che avevamo preso in precedenza con una monaca buddista per praticare la meditazione, ci convince ad abbandonare il luogo.
In pochi minuti pare esprimersi dinnanzi a noi il succo dell’epopea della civiltà umana: la religione sociale, che difende i valori di bene e di male e stabilisce la morale che dà coesione ai popoli, ci distoglie dal rito primitivo in cui predominano i valori irrazionali della natura.
Ma non possiamo andarcene senza avere fatto un’offerta; tutti i presenti fanno offerte ai nat in continuazione, attaccando ai loro costumi, a mezzo di spille, banconote da 500 o 1.000 Kyat, circa mezzo euro o un euro. Noi raduniamo un mazzetto di banconote da 1.000 K e le porgiamo alla donna che è seduta accanto a noi e che Martin ci indica quale appartenente al gruppo dei medium. Lei infila le banconote su di una spilla e me le rimette in mano, dandomi a intendere, a gesti, che mi devo alzare per infilare la spilla alla camicia della sciamano che danza.
Mi alzo e faccio quello che mi è stato chiesto. Poi invito lo sciamano a sedersi accanto a noi. “Vorrei intervistarlo”, dico a Martin, “puoi tradurre le mie domande?”
Lo sciamano ci spiega che il rito è stato allestito su comanda di una famiglia che ha acquistato il terreno sotto i nostri piedi, ove il rito si sta celebrando. La famiglia commissionaria è da tempo desiderosa di costruire in quel luogo una casa, ma da anni, per una serie svariata di impedimenti, non riesce a dare via ai lavori di costruzione.
Lo sciamano pensa che sia a causa degli spiriti che abitano un grande albero che sorge su quel terreno e che dovrebbe essere tagliato per permettere di edificare la casa. Così lui e il suo gruppo di medium hanno trovato un altro albero, più possente, che vive su di una collina disabitata poco distante da lì e che potrebbe costituire un’ottima dimora alternativa per gli spiriti. Il rito al quale abbiamo assistito aveva lo scopo di invitare gli spiriti dell’albero a trasferirsi.
Entusiasti, diciamo a Martin che vogliamo anche noi commissionare un rito sciamanico per noi soli. Martin appare sconvolto.
La paura irrazionale di Martin nei confronti degli spiriti denota, io penso, una debolezza culturale.
“Sii razionale, Martin”, gli chiedo, “gli spiriti sono aspetti della nostra psiche, non devi averne paura, è come se tu avessi paura di te stesso”.
Poi, però, mi dico che, forse, avere paura di noi stessi è cosa assai saggia.
“Mio cugino”, mi racconta allora lui “ha fatto molti soldi in poco tempo grazie a uno sciamano e alla sua banda di medium che, all’inizio, pareva non volere niente in cambio ma che poi, piano piano, ha preso completamente possesso dei suoi comportamenti e, di conseguenza, dei suoi beni. Ancora oggi gli dicono quello che deve fare, cosa deve vendere e cosa comperare e incamerano la maggior parte dei suoi guadagni”.
“Questo non è un problema dei nat”, osservo io, “ma dei loro intermediari, i quali sicuramente fanno leva sulle paure che tuo cugino nutre nei confronti dei nat.”
“Non bisogna temere gli spiriti”, dico io, ribadendo, almeno a parole, le mie opinioni, “sono aspetti della nostra psiche che, in determinate circostanze, quando vengono evocati, specie se a mezzo di un rito collettivo, assumono dimensioni e comportamenti apparentemente indipendenti da noi”.
“Ma mio cugino ha veramente fatto molti soldi in poco tempo grazie ai nat”, dice lui.
Io non faccio che ribadire che, per come la vedo io, i nat sono forze della nostra psiche, poteri ai quali abbiamo rinunciato per il bene della società civile. Lui si fa pensieroso e un po’ imbarazzato, tace.
Io voglio spiegare perché siamo così desiderosi di incontrare i nat, così gli dico che, a furia di essere civili e di seguire le “regole della buona condotta”, abbiamo a tal punto represso la nostra ombra, che quelli che un tempo erano spiriti e dèi oggi sono turbe comportamentali, ansie da prestazione, fobie, attacchi di panico e molte altri principi di sofferenza nella nostra società. “Perciò vogliamo ritrovare i nat!”, gli dico.
Martin è un personaggio strano, un uomo dolce. È un Kayin, ma ha un nome cristiano, è stato educato da preti cristiani ed ha persino trascorso un anno in Italia. Quando gli chiediamo di darsi da fare al fine di organizzare un rito sciamanico per noi, non vuole saperne, ma poi, ancora una volta, il suo senso del dovere prevale e, telefonando ad amici e conoscenti, riesce a fare ciò che gli chiediamo.
Il rito per noi viene organizzato a Bagan, dove saremo tra sei giorni.
Nel frattempo corriamo dalla monaca buddista per il nostro appuntamento con la meditazione theravada.

La monaca abita nel monastero da tredici anni, eppure pare un ragazzina. Ci spiega che nel suo monastero, il più famoso di Yangon si segue il metodo di meditazione impartito da Mahasi Syadaw, scomparso nel 1947 e ritenuto il più autorevole maestro di meditazione della Birmania.
In un colloqui privato accetta di spiegarci questo metodo nei dettagli. Vi notiamo delle differenze rispetto al sistema di meditazione buddista Vipassana che noi conosciamo e pratichiamo da anni.
Nel sistema Mahasi bisogna restare concentrati sul movimento continuo dell’addome associato alla respirazione. La costante concentrazione conduce a sviluppare la consapevolezza della realtà come miraggio o vacuità, e porta alla capacità di sentire che ogni evento che ci capita è scatenato dalla nostra mente stessa e, quindi, conduce alla piena libertà dal senso della realtà oggettiva.
A fianco della concentrazione sui movimenti dell’addome vi è la pratica della “meditazione camminata”, nella quale si sviluppa la consapevolezza dei movimenti degli arti inferiori in due tempi: so che sto alzando il piede, so che lo sto abbassando, oppure in tre tempi: so che sto alzando il piede, so che lo sto spingendo in avanti, so che lo sto abbassando. Una continua concentrazione di questo tipo porta alla visione dello scheletro interno e alla piena realizzazione del concetto di impermanenza del corpo.
Ma la meditazione, ci spiega la monaca, è anche consapevolezza di sé in ogni istante della giornata. Questo ci suona assai famigliare e rinforza i nostri propositi riguardo alla meditazione.
Ormai si è fatto tardi, non possiamo fermarci a meditare al monastero, ma promettiamo alla monaca di ritornare l’ultimo giorno del nostro soggiorno in Birmania, prima del rientro in Europa.
Intanto decidiamo di praticare la Presenza Mentale in ogni istante del nostro viaggio, servendoci, come ci è stato insegnato anni fa da un monaco theravada eremita dello Sri Lanka, di affermazioni mentali: “so che sto respirando, so che sto camminando, so che sto mangiando, so che sto viaggiando, so che sto pensando a questo o a quello, so che sto provando questa o quella emozione, ecc.”.
Prima di partire alla volta di Hero, ci rechiamo in visita alla Shwedagon Paya. Si tratta di un complesso religioso assai esteso, il più sacro della Birmania, secondo i buddisti theravada più ortodossi.
La cupola dorata dello stupa principale, che è alta ben 98 m., custodisce, secondo la leggenda, otto capelli di Budda.
Questo luogo religioso è anche il centro della vita sociale dei birmani di Yangon, essi vi svolgono diverse attività, compresi pranzi domenicali e raduni di ogni tipo.

Ma l’evento singolare al quale assistiamo presso la Shwedagon Paya è la pratica della fissità dello sguardo sul sole da parte di due eremiti tantrici.

Muniti di japa mala, il rosario indù composto da 108 grani, i sadu, gli eremiti tantrici recitano il loro mantra, (sillaba, parola o frase mistica) fissando ad occhi aperti il sole. Uno di essi sbatte le palpebre in continuazione, mentre l’altro ha gli occhi fissi, non ciglia, non muove un muscolo, è impressionante.
Di nuovo vediamo come la realtà e gli eventi siano frutto dei valori nei quali crediamo. Nella nostra cultura noi siamo convinti che fissare il sole a occhio nudo renda ciechi e, probabilmente, chiunque di noi fissi il sole a occhio nudo diverrebbe cieco. Certi sadu tantrici fanno della fissità dello sguardo sul sole una pratica religiosa, e non solo non ne diventano ciechi, ma ne traggono, probabilmente, benefici spirituali.
A conferma delle dottrine tantriche e buddiste secondo le quali più distrazioni sono presenti nell’ambiente e più la meditazione e la concentrazione è favorita, i sadu non appaiono per nulla disturbati da reporter e turisti che, chi con telecamere professionali, chi con kodak usa e getta, li riprendono da ogni angolazione. Anche io mi siedo al loro fianco per essere ripresa insieme a loro e, con mia grande sorpresa, scopro di non poter alzare neppure lo sguardo, tanto il riverbero del sole in quel luogo, carico superfici dorate e lucide, è intenso. Guardo ancora una volta estasiata i due santi tantrici che fissano gli occhi spalancati direttamente sul disco del sole e confermo a me stessa che la realtà è illusione, maya, una proiezione della mente, un miraggio.
La vista dei sadu tantrici ci aiuta a liberarci da noi stessi; il sole di Yangon scioglie le nostre certezze, le nostre credenze, ci mostra il germe della superstizione che si nasconde in ogni idea, dissolvendo la nebbia dei pensieri fino a rendere la coscienza vuota e radiosa.
Sereni, con la luce del tramonto negli occhi, decolliamo alla volta di Hero e da qui ci rechiamo in auto fino alle sponde di un canale affluente del lago Inle. Percorriamo il canale in canoa fino al lago. Meraviglioso! Il lago Inle e i suoi canali, pure ci parlano di altri modi di gestire la realtà. Qui, pomodori, zucchine, peperoni e molti altri ortaggi vengono coltivati direttamente sulle acque dei canali, non hanno radici che affondino a terra, costituiscono una flora galleggiante sulla quale, come su di un gigantesco canotto di gomma, è possibile persino camminare.
La gente vive in case costruite su palafitte e anche il nostro albergo è un insieme di bungalow costruiti su palafitte. Tutti si spostano a mezzo di canoe. A tratti ci pare di avere scoperto una Venezia asiatica dove ogni condizione ambientale, a partire dal clima, pare perfetta per noi.

hIl lango Inle giace su di un altipiano a 875 metri sul livello del mare, il caldo durante il giorno non è opprimente e la frescura della sera e del mattino è rigenerante.
Pratichiamo tra di noi meditazioni e esercizi di yoga tantrico sul balcone di un bungalow, osservando la luce dell’alba che sorge all’orizzonte, oltre le calme acque del lago.
Al calar della sera, dopo una giornata dedicata a visitare le antiche rovine di stupa eretti da antenati Shan e ormai tristemente e in modo irrecuperabile talmente feriti dal tempo e dall’incuria umana da essere stati giudicati non restaurabili, camminiamo per le vie del villaggio che sorge poco distante dal nostro albergo alla ricerca di un bar.

Gruppetti di ragazzi apparentemente ubriachi ci camminano a fianco cantando e, qualcuno di loro, un po’ barcollando.
Bambini sorridenti gridano dalle finestre delle case sospese su palafitte per attirare la nostra attenzione.
Ragazze che ci sembrano bellissime ci passano accanto portando enormi cesti carichi sulla testa.
Ripensiamo alla leggenda di Keinnayi e Keinnaya, le mitiche figure che abbiamo visto scolpiti su molti dei resti degli stupa Shan. Keinnayi è uomo dalla vita in su e uccello dalla vita in giù, Keinnaya è per metà donna e per metà uccello I due personaggi leggendari si amavano ed erano sempre insieme, finché una tempesta non li divise. L’amore che li univa era così grande che, quando si ritrovarono, piansero per sette anni il dolore della loro separazione.
Troviamo il bar. Ci sediamo a un tavolo su sgabelli molto bassi e ci guardiamo intorno. Il locale è pieno di ragazzi e ragazze che bevono tè al latte. Alcuni di noi ordinano birra, altri del tè. Ci portano tre grandi bottiglie di Myanmar Beer e caraffe enormi colme di tè fumante.
Uno di noi alza il bicchiere per un brindisi: “So che sto per bere birra, so che sto per perdere la Presenza Mentale, so che, se qualcosa è vero, il suo opposto è altrettanto vero, so che sto benissimo qui, questa sera, con voi”. Tutti noi brindiamo con lui, alcuni con birra, altri con tè al latte: “Alla passione che illumina il mondo!”


Celebrazione dei riti a Bagan

Dopo il lango Inle visitiamo luoghi meravigliosi. Il Wooden Monastery, un monastero in legno su palafitte, in tradizionale stile Shan, che sorge a Taunggyi, non molto distante dal lago Inle. Il monastero è adibito a scuola per monaci bambini.

Sempre nello stato Shan, entriamo nelle grotte naturali di Pindaya, nelle quali sono state collocate nell’arco di numerosi anni molteplici statue del Budda di ogni dimensione.
Ma con la passione per gli spiriti nel cuore, non vediamo l’ora di arrivare a Bagan.

Dopo aver assistito a quel rito di esorcismo, celebrato alla periferia di Yangon, Martin si è dato assai da fare al fine di organizzare per noi un rito sciamanico, telefonando ad amici da ogni albergo nel quale ci siamo fermati lungo il nostro cammino.
È riuscito ad ottenere il permesso di celebrare il rito proprio a Bagan, la città ove i culti dei nat sono più vivi, e proprio alla base del sacro zedi (stupa) di Swezigon, dove sono collocate le statue dei 36 nat più potenti della Birmania.
Di nuovo non vuole saperne di venire con noi, ma, alla fine, il suo senso del dovere prevale e ci accompagna.
La roccaforte dei seguaci dell’animismo è meta di turisti, ma qualcosa ci dice che l’intimità del nostro rito non verrà disturbata.
Fu il re Anawrahta (1044-1077), fondatore di quello che i birmani definiscono il Primo Impero Birmano, a scegliere il buddismo theravada come religione sociale al fine di dare unione e solidità al proprio impero.
Come era accaduto a Costantinopoli, dove Costantino il Grande aveva dato un fondamento sociale al proprio impero sull’affermazione del cristianesimo come religione di stato, così a Bagan il re Anawrahta decise di ancorare il proprio impero alle solide basi morali del buddismo theravada.
Convertitosi egli stesso al buddismo theravada, Anawrahta segnò con decisione la svolta del Myanmar dalla religione indù e buddista mahayana alle dottrine del buddismo theravada.
Come Costantino aveva represso ferocemente l’eresia, affermando l’unità della chiesa, così Anawrahta, deciso a imporre il buddismo theravada come unica religione del proprio impero, combattè duramente il culto dei nat. Ordinò che i santuari dedicati agli spiriti fossero distrutti nel suo impero e confinò le icone indù, principali veicoli dell’animismo bamar, in un tempio sconsacrato di Vishnu, che venne chiamato Nathlaung Kyaung, ovvero Monastero dei nat prigionieri. Questo monastero è ancora oggi visibile tra i resti delle migliaia di stupa di Bagan, ma i nat, se mai vi furono catturati, se ne andarono molto presto.
La popolazione, infatti, non abbandonò mai il culto degli spiriti, ricostruendone i simulacri nelle proprie case e restaurando privatamente ciò che pubblicamente era stato distrutto.
Il re Anawrahta dovette rendersi conto che la sua politica repressiva non solo non era efficace contro l’animismo, ma, anzi, rischiava di fomentare ribellioni nei confronti del buddismo theravada.
Così annullò il suo precedente divieto di costruire santuari dedicati ai nat e acconsentì alla presenza delle immagini degli spiriti nel suo impero.
Tuttavia egli fece sì che gli spiriti fossero, in qualche modo, subordinati alle immagini sacre del buddismo, creando, comunque, una gerarchia di valori in cui i principi razionali della buona condotta, che animano la religione sociale, prevalessero sui valori istintivi della religione di natura. L’etica fissata dai parametri della ragione e le gerarchie dei valori della logica dovevano necessariamente prevalere sulle inconsce forze dell’ombra per dare coesione, forza, prosperità e salute al Primo Impero Birmano. Così Anawrahta ebbe una trovata geniale: collocò alla base dello stupa di Shwezigon a Bagan, capitale del suo impero, le statue dei 36 nat più potenti, ma ve ne aggiunse un trentasettesimo, Thagyamin, che soppiantò il precedente re dei nat.
Thagyamin è un raffigurazione di Indra, divinità indù che, secondo la mitologia tradizionale buddista, rese omaggio al Buddha su incarico di tutti gli dèi indù. In questo modo i nat vennero subordinati al Buddha.
Ancora oggi la popolazione bamar considera il Buddha come il più importante riferimento religioso, seguito dai nat indù e infine dai nat bamar. Eppure, malgrado ciò, i nat bamar sono i più evocati, celebrati e temuti nei culti e nei rituali popolari. La gente, infatti, ha deciso di affidare al Buddha le questioni inerenti la propria vita futura, ma per propiziarsi gli eventi di questa vita, fare giustizia o operare guarigioni nella vita quotidiana ricorrono ai nat
Molto venerati sono anche i nat degli alberi. Non è difficile, viaggiando per il Myanmar, incontrare piccole casette costruite sulle radici o sui rami di un vecchio albero: sono i santuari dei nat degli alberi ai quali i credenti fanno periodiche offerte di cibo, acqua, profumi e luce a mezzo di incensi e candele.

Il culto, il rispetto e il timore reverenziale per gli spiriti è una realtà effettiva nel Myanmar. I birmani dimostrano di considerare quei particolari eventi psicologici che la psichiatria definisce “crisi psicotiche” come possessioni spiritiche.
“Una persona posseduta da un nat”, ci racconta Martin, “sente voci e impulsi violenti che la vorrebbero spingere a compiere gesti folli, socialmente inaccettabili o pericolosi per se stessa e per gli altri”.
Il rito sciamanico crea un contesto al di fuori della morale razionale, un momento in cui, al suono frenetico dei tamburi è possibile agitarsi, divorare carne, provocarsi piccole ustioni, bere, fumare, compiere gesti osceni, pronunciare parole violente e scurrili, dissacrare tutti i valori più cari alla ragione, divertirsi con ciò che, in condizioni normali, fa più paura alla gente: il sesso, il denaro, il sangue, il fuoco, ecc. In questo contesto le forze dell’ombra si liberano. Gli dèi recitano se stessi sul palcoscenico del rituale sciamanico. Alla fine del rito, felici di essersi rappresentati, un po’ con eventi concreti, ma soprattutto a mezzo della fantasia e dell’immaginazione, gli dèi liberano il corpo di colui che hanno scelto come loro strumento.
Gli spiriti vanno placati con riti e offerte; ad alcuni di essi piace l’alcol, ad altri la carne cruda, il tabacco, il denaro, il sesso o la danza: il rito è il momento in cui l’uomo concede alle forze inconsce della psiche un riconoscimento al fine di propiziarsele, ovvero di poterle vivere come energie costruttive e non distruttive nel contesto della sua vita quotidiana.
L’arte di esistere in equilibrio tra la forza istintiva e il controllo razionale, tra l’urgenza del sacro, del sacrificio, del bisogno di darsi, da un lato, e la volontà di affermarsi e conservarsi, dall’altro, si può apprendere a Bagan guardandosi intorno con sguardo un po’ più attento di quello che compete al normale turista. Questa arte è nel saper rappresentare gli spiriti senza esserne posseduti in modo irreversibile, nel poter vivere quanto la voce degli dèi sussurra a mezzo del potere visionario, senza agire nel concreto il loro volere.
Gli spiriti, gli dèi, infatti non vanno mai presi alla lettera, essi parlano per metafore. Ciò che raccontano è simbolo del sacro; va vissuto in modo poetico e visionario.
Gli sciamani di Bagan danno vita per noi a riti straordinari, uno di mattina, alla base del sacro zedi (stupa) di Swezigon e l’altro di notte, in riva al lago: belle le danze, i costumi, i suoni tribali dei tamburi, belle le storie dei nat che gli sciamani raccontano e bello il paesaggio che fa da cornice al rito e pare parteciparvi con i suoi cangianti colori e profumi. La Bellezza ci cattura, quasi fosse essa stessa l’essenza della magia.

Un’ipotesi sulla magia

L’arte: la poesia, la musica, la danza, il canto, ecc. sono i mezzi del dialogo con l’ombra. Gli spiriti parlano un linguaggio creativo ispirato alla bellezza, non un linguaggio logico dettato dai valori del calcolo razionale.
L’esistenza è maya, dicono in Oriente, cioè miraggio, sogno illusione, gli eventi sono una proiezione della mente e gli oggetti sono interni e non esterni alla mente.
La visione prodotta dalla mente razionale ci sembra più importante, più realistica e concreta di quella creata dalla fantasia perché nutriamo attaccamenti verso le immagini della ragione, ispirate ai valori sociali del bene, mentre temiamo le visioni della fantasia, le quali sono canali del sacro, dell’ombra inconscia, dell’urgenza di darci.
Vogliamo afferrare i miraggi prodotti dalla ragione e con ciò diamo ad essi un’apparenza oggettiva e concreta, indipendente dalla nostra stessa volontà. Finiamo per subire gli eventi prodotti dalla mente razionale come fossero da noi indipendenti, dimenticando di esserne noi stessi la causa, inoltre riteniamo gli eventi prodotti dalla ragione più realistici di quelli creati dalla fantasia.
Insomma, la gerarchia mentale dei valori ci porta a pensare che ci siano espressioni dell’uomo più realistiche di altre: l’esperienza del nostro mondo quotidiano più realistica della nostra esperienza artistica, religiosa o onirica.
I nat non paiono meno realistici degli oggetti concreti in un rito sciamanico, poiché il rito trasforma i sensi, liberandoli dal condizionamento delle gerarchie di valori.
Il calcolo dei valori di vantaggio e svantaggio della logica e l’urgenza di darsi del sacro si compenetrano nel rito, così non vi è più bisogno di attribuire ai prodotti della ragione un grado di realismo superiore a quello che compete alle creazioni della fantasia.
Nel rito l’uomo è il maestro delle cose e non la vittima delle loro reazioni: ciò è magia.

Alcune storie di nat
A dimostrazione del fatto che i nat impersonano le forze istintive e i valori della religione di natura che la civiltà e la religione sociale hanno combattuto, o represso, ci sono i bellissimi racconti delle loro leggende.
I nat sono così forti o così belli da sfuggire ai parametri della logica comune, essi non sono calcolabili, misurabili, prevedibili, non sono governabili, perciò la società civile li percepisce come una minaccia e li vuole sopprimere.
Maung Tin Te, il Fabbro, è un personaggio mitologico, di lui leggenda racconta che fosse così forte da creare opere sovraumane, spaventato da una simile potenza, il re decise di ucciderlo, ma in nessun modo i suoi soldati riuscirono a ferirlo, egli pareva invulnerabile, solo il fuoco poteva veramente minacciarlo.
Allora il re decise di ricorrere all’astuzia (il mezzo della ragione contro l’istinto).
Il re sposò la sorella del Fabbro, Shwe Myetnar (Faccia dOro) e le fece credere di voler attribuire a suo fratello un alto titolo nobiliare e molti benefici. La sorella mandò a chiamare il fratello, al quale il re fece tendere un agguato.
Il Fabbro venne legato a un albero e arso vivo. La sorella di lui, presa da rimorso, si gettò nello stesso fuoco che bruciava il fratello, ma il suo viso, come per magia, rimase illeso.
Il re fece del viso di Shwe Myetnar un calco d’oro affinché l’immagine di lei si conservasse per sempre.
Il Fabbro e la sorella, colti da una morte ingiusta, divennero nat e comparvero in sogno al re. Nel sogno essi dissero al re che, se lui li avesse accolti nel proprio regno quali spiriti, loro avrebbero protetto la città.
Così il re fece riprodurre con i residui dell’albero con il quale il Fabbro e Swe Myetnar arsero due icone raffiguranti il Fabbro e Faccia d’Oro e le fece porre alle porte della città.
A tutt’oggi il Fabbro e Faccia d’Oro sono considerati i protettori della città di Bagan.
Un’altra sorella del fabbro Tounpalà ( Tre Bellezze) divenne lei pure un nat.
Tre Bellezze era moglie del re dei Mon, uno dei primi gruppi etnici insediatisi in Myanmar. I Mon controllavano un tempo un territorio di cui faceva parte anche l’attuale Thailandia. Oggi i Mon sono stati quasi completamente assimilati dalla maggioranza e non sembrano più distinguibili dai bamar, componenti della principale etnia birmana.
Tounpalà non era solo bellissima, ma la sua bellezza mutava tre volte al giorno, in sintonia con le variazioni della luce.
Le donne a corte, gelose di lei, insinuarono che la sua bellezza fosse frutto di sortilegi magici e convinsero il re della pericolosità della sua sposa.
Il re scaccio Tounpalà, la quale, tornata nel suo villaggio d’origine prese a lavorare al telaio e guadagnò così bene, a mezzo della propria attività di tessitrice, da poter far costruire una pagoda che chiamò Lin ma Kyi, ovvero Odio il Marito.
Il re, venuto a sapere dell’impresa di Tre Bellezze mandò i suo soldati per ucciderla. Lei fuggì, ma, lungo la via, nei pressi della città di Mandaly, colta da febbre alta, morì.
Tounpalà portava con sé una figlia di soli due anni d’età, Ma Né Lay. Non volendo lasciare Ma Né Lay sola, Tounpalà stessa la uccide, portandola con sé nel mondo dei nat.
I nat dimostrano di essere totalmente al di là del bene e del male, non assoggettati ai valori della ragione comune. Liberi dal principale dogma della ratio: “vita superiore a morte”, affermano la loro verità: “Amore superiore a vita e superiore a morte”.
Il sacro, la capacità di darsi, l’urgenza di amore, è, per i nat, potenze della natura, la legge fatale.
Spaventati da tale capacità di offerta di sé, i re, condottieri della civiltà, si difendono ora a mezzo della persecuzione violenta, ora attraverso l’astuzia.
Ma i nat sono tutt’oggi vivi a Bagan, poiché la loro leggenda è il racconto dell’epopea dell’Amore che vince la Morte.

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