lunedì 22 novembre 2010

I messaggi di Padre Piotr Anzulewicz OFMConv (21/11/2010)

Viviamo questa settimana meditando, profondamente nel nostro intimo,

sulla realtà meravigliosa, indicibile, di Gesù, Re del nostro cuore, che per amore si è lasciato crocifiggere.

«Ecco che la solennità di oggi, con l’icona di Cristo crocifisso, dono totale per noi, diventa uno schiaffo al culto del potere e dell'apparire. [...] Cristo è un re senza trono e senza scettro, un re che necessita di un cartello per identificarlo,
un re senza potere se non quello devastante dell’amore,
denudato, sputacchiato, vilipeso dalla soldataglia e dalla gente “perbene”, disprezzato, “come uno davanti al quale ci si copre la faccia” (Is 53,3);
un re che – inaspettato – si scopre e si svela, si consegna e si mette in gioco, per piegare la nostra durezza;
un re che manifesta la sua grandezza e la sua potenza nell'amore».



Re dei cuori, della Terra e degli Universi

Tra le Fiabe, raccontate per i bambini di Hans Christian Andersen († 1875), scrittore e poeta danese, ve ne è una bellissima, ma al contempo amarissima: I vestiti nuovi dell'imperatore (o Gli abiti nuovi del re). È di attualità incalzante e sferzante. Molto si addice ai nostri governanti, capi e superiori, e a noi, loro servitori sciocchi. La fiaba parla di un re vanitoso, dedito alla cura del suo «look», della sua immagine, della sua visibilità.

Il re si pavoneggia nudo, credendosi vestito di un abito splendido. Mentre sfila sotto il sontuoso baldacchino, per le vie della città, i cortigiani e i cittadini, estasiati, lo applaudono e a gran voce lodano la sua eleganza: «Dio! Sono di una bellezza incomparabile, i vestiti nuovi del re! Che splendida coda dietro la giubba! Come gli stanno bene!». Nessuno vuole mostrare che non vede niente, perché significherebbe che non è degno della carica che occupa, oppure che è molto stupido. Davanti agli sfondi celestiali e di fronte ad un popolo incantato dal suo fraseggio efficace e scanzonato, il re celebra e difende se stesso, si compiace della sua infinita bontà e umanità di padrone che dall’alto del suo smisurato potere getta caramelle e coriandoli e, strizzando l’occhio, ride dei suoi oppositori, usando gli enormi mezzi a sua disposizione, mentendo e cambiando le regole del gioco. Insomma, si lascia andare ai suoi vizi e alla sua vita da sultano, mentre il paese, lentamente, affonda. Ad un tratto un bimbo, sgranando gli occhi, spezza tutto l’incantesimo, gridando: «Ma non ha niente addosso!».

Leggiamo il finale della fiaba:

«“Signore Iddio! La voce dell’innocenza!” – disse il padre. E ognuno sussurrava all’altro quello che aveva detto il bambino. “Non ha niente indosso! C’è un bambino che dice che non ha niente indosso!”. “Non ha proprio niente indosso!” - urlò infine tutta la gente. E il re si sentì rabbrividire perché era sicuro che avevano ragione, ma pensò: “Ormai devo guidare questo corteo fino alla fine!”, e si drizzò ancor più fiero e i ciambellani camminarono reggendo la coda che non c’era per niente».

Non dovremmo forse riflettere sulla rigidità delle nostre maschere, indossate oggi e nei secoli? Maschere che soffocano lo spirito, negano la vitalità interna della Chiesa e la riducono ad essere il “sepolcro di Dio”? Ben venga lo smascheramento e la nudità!

Oggi concludiamo l’anno liturgico C con la più inquietante e devastante solennità, quella di Cristo Re dell’Universo. Egli, al contrario del re che incontra il bambino della fiaba di Andersen, non cerca la sottomissione dei suoi sudditi e non pretende un’accettazione supina dei suoi comandi. A lui non interessano degli schiavi o degli automi che ciecamente obbediscono ai suoi voleri. «Non siete servi – dice –, ma vi ho chiamato amici, perché vi ho fatto conoscere le cose del Padre mio» (Gv 15,15). Egli, il re libero, ci chiama alla libertà, perché non c’è amore vero senza libertà. «A colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen!» (Ap 1,6s.).

È lui che pazientemente ci conduce su un cammino di liberazione. Se fossimo sinceri con noi stessi, ci accorgeremmo di quanto abbiamo bisogno di questa liberazione, di come viviamo in tanti autoinganni, di come di continuo ci raccontiamo storie per non guardare in faccia la realtà e ci nascondiamo di fronte alla verità, perché ci fa paura e ci costa sudore abbandonare le nostre sicurezze, lasciare le nostre piccole e grandi schiavitù, ammettere che siamo deboli e presuntuosi, e togliere corazze e maschere per far emergere il nostro vero volto.

È forse per questa ragione che lungo i secoli i cristiani preferivano rivestire il Cristo con le vesti regali, dargli la corona e lo scettro del comando e prostrarsi umilmente ai suoi piedi. Cercavano la tranquillità e la soddisfazione materiale, si accontentavano di una piccola felicità o di una facile consolazione, volevano qualcuno che togliesse loro la fatica di pensare, di scegliere e di assumersi la proprie responsabilità: «Gli uomini si sono rallegrati di essere di nuovo guidati come un gregge – dice il Grande Inquisitore nei Fratelli Karamazov di Fëdor Dostoevskij († 1881) –, si sono rallegrati che qualcuno avesse finalmente tolto dal loro cuore un dono così terribile che aveva causato loro tanto tormento», perché in fondo «non c'è mai stato nulla di più insopportabile, per l'uomo, della libertà». È sempre insidiosa la tentazione di darsi un re che ci sollevi dalla fatica di usare bene della nostra libertà e ai piedi del quale deporre la nostra coscienza. «Cristo – dice s. Paolo alla comunità dei Galati – ci ha liberati per la libertà! State dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù» (Gal 5,1).

Cristo è un re senza trono e senza scettro, un re che necessita di un cartello per identificarlo, un re senza potere se non quello devastante dell’amore, denudato, sputacchiato, sfigurato, vilipeso dalla soldataglia e dalla gente “perbene”, disprezzato, «come uno davanti al quale ci si copre la faccia» (Is 53,3); un re che – inaspettato – si scopre e si svela, si consegna e si mette in gioco, per piegare la nostra durezza; un re che manifesta la sua grandezza e la sua potenza nell'amore.

Cristo, di cui abbiamo esaltato, durante questi dodici mesi, tutte le tappe della sua traiettoria terrestre, ci viene oggi rammentato come il Re dell’Universo, il detentore del potere regale, che è all'apice di tutte le cose che in lui sussistono e in lui si ricapitolano (Col 1,16-17); il Primo e l'Ultimo, l'Alfa e l'Omega (Ap 1,8; 1,17). In lui Dio regna, perché salva l'umanità dai malesseri, offrendo ad essa dei criteri di convivenza del tutto estranei alla mentalità mondana, quelli dell’amore e della giustizia. Di questi valori si rende apportatore e testimone: caccia i demoni dagli ossessi, guarisce i ciechi, riabilita gli storpi, rende giustizia ai poveri e agli oppressi, è solidale con i peccatori e condivide le precarietà e le miserie umane. Sta qui il suo regno e la sua sovranità che è signoria di servizio e di donazione, di amore e di compassione, di sacrificio e di condivisione…

Poiché il suo regno si esprime nella realtà dell’amore, egli rinuncia a qualsiasi sicurezza terrena ed espone se stesso anche al vituperio e all’ignominia. La sua regalità si concretizza nell'oblazione libera e spontanea di sé sulla croce, massima espressione dell’amore. Il «re dei Giudei» – che sospira di fronte a Pilato, che gronda sangue dal capo trapunto dalle spine, che è stato flagellato fino a strappargli la carne – rende l'idea di una regalità che dona se stessa agli uomini rinunciando ai propri diritti di grandezza e di predominio. In tutto questo egli è re. Quale esempio di umiltà e di servizio, se non quella dell'annichilimento e dello svilimento di se stesso fino all'effusione del sangue per l’umanità? Non si era mai visto un re che avesse rovesciato in modo così radicale il concetto di regalità e di potenza umana! E' l'offerta sulla croce a darci la massima espressione dell’esercizio della regalità di Cristo come amore infinito ed effettivo.

Siamo chiamati a leggere la sua regalità così come le tribù d'Israele leggevano la regalità di Davide: «Ecco noi siamo tue ossa e tua carne» (2 Sam 5,1). È una regalità/autorità alla quale possiamo rivolgere le parole dell'amore, dell’appartenenza vicendevole e dell’intimità, quelle che usiamo con l’amata o l’amato: «Sei mie ossa e mia carne».

Ecco che la solennità di oggi, con l’icona di Cristo crocifisso, dono totale per noi, diventa uno schiaffo al culto del potere e dell'apparire. E questo ce lo dice anche la sobrietà della liturgia di questa domenica: nessun tono enfatico. «Solo un vocabolo, nel Vangelo, potrebbe farci pensare a qualcosa di speciale, come in effetti è: spettacolo. (…) Lo spettacolo da contemplare è quello della croce. E la folla – dice il testo greco – guar da con interesse e partecipazione (…). È davvero questa la regalità da contemplare, questa e non un'altra, quella del mondo, perché la regalità della croce è donazione, non esibizione (…). Noi invece ci incantiamo davanti alle esibizioni, perché la croce, spesso, scandalizza... scandalizza gli uomini religiosi. Si dice Figlio di Dio, ma se è così che razza di Padre è questo Dio che lascia un Figlio sulle croce?! La croce scandalizza anche gli uomini del potere, quelli che credono nell’uso della forza: ‘Se tu sei il Figlio di Dio, salva te stesso, usa la forza!’» (cfr. Lc 23,35-37). E invece la regalità di Gesù si perde salvando gli altri» (M. Prandi). è scandalizzato anche uno dei ladroni, ma l'altro, quello che la tradizione chiama buono, negli spasimi dell’agonia riconosce in Gesù Dio stesso nella nostra stessa pena, appeso a una croce come le nostre. Forse è per questo che il crocefisso qualcuno lo voleva e lo vuole togliere dalle pareti, perché per colpa nostra è rimasto troppo tempo muto. Non lo abbiamo ascoltato e fatto parlare, per far crescere la cultura dell’esibizione e il culto dell’io.

Proprio ieri papa Benedetto XVI, accogliendo nel collegio cardinalizio i 24 nuovi porporati, con forza ha rammentato che nella Chiesa non vale il modello umano del dominio e dell’apparire. «Nella Chiesa nessuno è padrone, ma tutti sono chiamati, tutti sono inviati, tutti sono raggiunti e guidati dalla grazia divina». Nella Chiesa vale la «logica del servizio», la «logica del chinarsi a lavare i piedi», «la logica della croce che è alla base di ogni esercizio dell’autorità (…). La diaconia è la legge fondamentale del discepolo e della comunità cristiana». Essa «richiede una volontà (…) di assumere lo stile del Figlio di Dio», venuto in mezzo a noi «come colui che serve (…). Si tratta di seguirlo nella sua donazione d’amore umile e totale alla Chiesa sua sposa, sulla croce: è su quel legno che il chicco di frumento, lasciato cadere dal Padre sul campo del mondo, muore per diventare frutto maturo. Per questo occorre un radicamento ancora più profondo e saldo in Cristo».

Rivolgiamo a questo Re, Amore crocifisso, una preghiera:



Signore Gesù, Figlio divino che ti sei fatto uomo, non lasciarci nel finto e comodo errore di crederti il Re di tutti i re. Tu sei l’unico Re autentico, ma quello del cuore di ogni essere umano. Dacci il coraggio e la perseveranza di rifiutarci ad ogni soggezione richiestaci in nome della regalità o della democrazia umana. Rendici capaci di servire come hai servito tu, lavando i piedi ai tuoi apostoli e offrendo loro il pane di vita e il sangue della salvezza. O Re dei nostri cuori, pensieri e sentimenti, ricordati di noi! Salvaci! Portaci con te, nel tuo regno d'amore!

Piotr Anzulewicz ofmconv






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