30a domenica del tempo ordinario ©
Sir 35,15-17.20-22; Sal 33; 2 Tm 4,6-8.16-18; Lc 18,9-14
24 ottobre 2010
Mani e cuor e da riempire,
di umiltà
Il leitmotiv della Parola di Dio della 30a domenica del tempo ordinario è l’umiltà. Parlarne nei nostri tempi, gonfi di spot pubblicitari e di successi mediatici, di apparenze plateali e di piacevolezze effimere, di autoreferenzialità pragmatica e di istintualità superficiale, di pressappochismo e di inseguimento di uno status sociale – tempi che forniscono un quadro desolante fino al brivido e al cadere delle braccia – richiede una determinazione da martire. Un richiamo all’umiltà sembra quasi un grillo nel deserto. Eppure, la verità è che l’umiltà è «divina». Dio, in quanto immensità dell’Amore, è immensità dell’Umiltà. Se mancasse l’umiltà, tutte le sue grandezze: maestà e gloria, onnipotenza e onniscienza, bellezza e tenerezza, si “decomporrebbero” di colpo. Un Dio senza umiltà non può essere amato e adorato.
L’umiltà è l’aspetto essenziale dell’amore. È un paradosso talmente grande che la ragione si smarrisce e si scoraggia. Eppure, attraverso la notte delle parole, filtra un raggio di luce, se si sceglie di fare riferimento all’esperienza che si ha dell’amore, per quanto intrisa di peccato: amare con orgoglio non è veramente amare. Se Dio è Amore, egli è umile. e l’umile non umilia e non fa concorrenza a nulla. La sua superiorità è al contempo annullata e confermata: annullata, perché non rischia di annullare noi; confermata, perché l’umiltà la segna con il proprio sigillo. Non si è gelosi di un grande umile.
Dio è tale che la sua potenza d’amore, la sua ricchezza d’amore e la sua libertà d’amore – dice François Varillon († 1978), gesuita e scrittore francese – sono tradotte, espresse e rivelate attraverso l’umiltà, la povertà e la dipendenza di Gesù Cristo. Non si può dire al tempo stesso: «Ti amo», e: «Voglio essere indipendente da te». Questo annulla quello. Quando si ama, si vuole dipendere ed ‘essere’ attraverso l’altro e per l’altro. Attraverso l’altro: è l’accoglienza. Per l’altro: è il dono. Chi più ama, più dipende dall’altro, più tende verso l’altro, più è sensibile e attento all’altro. Non si può guardare dall’alto in basso colui al quale si dice: «Ti amo». L’altezzosità dello sguardo annienterebbe l’amore.
Francesco d’Assisi († 1226) non è umile quando si inginocchia davanti al papa. Inchinarsi davanti alla grandezza degli altri non è umiltà. È lealtà e onestà, verità e “gentilezza dell’animo”. Che uno più piccolo renda omaggio a uno più grande, non testimonia un’eccezionale nobiltà d’animo. Quando Francesco si abbassa davanti a un povero – che egli riconosce, in quanto povero, rivestito di maestà – non compie un gesto condiscendente: niente sovrasta nel suo sguardo e la spontaneità è assoluta. Egli esprime l’amore come il respiro esprime la vita. E bisogna essere immensamente grandi per respirare e amare così.
Lo sguardo altezzoso, altero e superbo disprezza e annienta l’amore. Tale è lo sguardo del fariseo nel brano lucano (Lc 18,9-14). L’evangelista Luca lo analizza correttamente: questo fariseo fa parte di quelli che si sentono giusti e sicuri di sé e non hanno bisogno della misericordia di Dio e dei suoi miracoli. Egli rende grazie a Dio non per i suoi miracoli, ma per il miracolo che egli ritiene di essere. La sua preghiera è «atea», perché pone l’ego al centro e non supera il tetto del tempio.
Lo sguardo del pubblicano è l’esatto opposto. Egli deve prendere il coraggio a quattro mani per osare entrare nel tempio. In realtà, sa di essere un poco di buono, messo al bando dalla società, disprezzato e condannato senza appello. Ogni giorno deve subire i giudizi dei benpensanti. Nel suo atto di introspezione riconosce la sua vita come fallimento. E la preghiera che il fariseo pronuncia in sua presenza ad alta voce – sgranando la corona dei suoi meriti dall’altezzoso sgabello della sua traballante sicurezza – lo umilia e aggrava il suo sconforto. Di fronte a Dio e a questo sedicente giusto, non ha nessun merito da poter offrire e nessun diritto da far valere. Le sue mani sono vuote. E tuttavia, in questa situazione di sconforto, una sola cosa può riempire il suo vuoto: l’amore, la misericordia, la pietà di Dio. Lui la invoca e si getta in essa. E questo basta. Non ha nulla da temere. Per quanto possa cadere in basso, ancora più in basso, si troveranno l’umiltà e la tenerezza di Dio, che egli incontrerà un giorno, volente o nolente. E allo stesso tempo sarà posto nel cuore del Magnificat, del Benedictus, di tutti i salmi. Si troverà al centro della storia della salvezza. Infatti, la sua travolgente fiducia nella misericordia la fa diffondere là dove il fariseo la ferma di netto. Così la misericordia, questa straordinaria umiltà di Dio, che è pure la sua onnipotenza, può anch’oggi continuare a compiere miracoli.
Il pubblicano, dicendo: «O Dio, abbi pietà di me, peccatore» (Lc 18,13), nella «sincerità del suo intimo» (Sal 50,8), eleva una preghiera sincera, semplice ed umile che va verso l’alto, come un profumo gradito a Dio, e «attraversa le nubi né si quieta finché non sia arrivata» (Sir 35,21). Secondo Charles Péguy († 1914), scrittore, poeta e saggista francese, «dopo queste tre o quattro parole – dice Dio – l’uomo può dirmi ciò che vuole. Sono disarmato». È così che egli «torna giustificato a casa sua» (Lc 18, 14).
Diciamole spesso pure noi, e il perdono ci affratellerà sempre più.
Signore Gesù, ci invitasti a pregare nell'umiltà e invece noi, arroganti e presuntuosi, ci avviciniamo a te senz’anima, devozione, fede, quasi da “atei”. Aiutaci a sentirci peccatori come quel pubblicano e a fare concretamente qualcosa per sollevare gli oppressi dalla fame e dalla sete. Ci dicesti di dare da mangiare agli affamati e invece ogni giorno sprechiamo tonnellate di cibo nelle nostre città. Ci dicesti di dare da bere agli assetati e invece non facciamo quasi niente per dissetare milioni di persone in Africa.
«Abbi pietà di noi, Signore, perché siamo poveri peccatori. Oh, Signore, rimandaci giustificati!» (Teresa di Gesù Bambino).
Piotr Anzulewicz OFMConv
panzulewicz@live.it
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